La tradizione del ricamo
Mani che corrono, mani di filo, puntini minuscoli che paiono rincorrersi come nanetti, un’arte antica che passa da nonna e nipote, e, in pieno Terzo Millennio, sono ancora tante le ragazze che amano cucire e ricamare qualche pezzo unico per il proprio corredo.
Già il corredo, la parola sa di antico, di superato, di poco ortodosso, e invece ogni casa ha ancora la sua cassa di legno che trabocca di tende di merletto, copriletto di filo, punto chiacchierino e elegante tovaglie a punto intreccio.
Non ci si meraviglia, a vedere queste dolcezze di filo, a ricordare che questa è la terra di Domenico Dolce e che proprio da questi vicoli dove le nonnine si riuniscono per ricamare, il grande stilista abbia colto la sua ispirazione.
D’altronde, spesso Dolce lo ha raccontato: lui è partito da qui, dai tessuti del padre e della madre, dalle pezze di velluto, dai ricami.
Oggi, dopo aver finanziato i lavori della Chiesa Madre e aver donato l'abito che indossa la statua della Madonna per il Venerdì Santo, esorta i giovani a ritornare alle origini e all’artigianalità.
E all’arte del ricamo, che qui a Polizzi, è sovrana.
Le ragazze un tempo non imparavano solo dalle donne di casa, ma andavano a lezione di ricamo da una maestra (la “signorina”), e spesso le più dotate diventavano apprendiste; altro spunto era presso i conventi, dove si formavano vere e proprie scuole di ricamo, di disegno e di pittura per coperte.
La ricamatrice era allora un mestiere richiesto, i corredi nascevano da queste mani d’oro, non c’era nobile o popolana che non avesse la sua “cascia” di legno intarsiato colma di tesori.
Tanto che, alla vigilia delle nozze, si “consava” la tavola con i pezzi più importanti del corredo, e da qui si comprendeva il livello e il lavoro della famiglia della sposa.
Al corredo si lavorava dal giorno della nascita della bambina: di solito c’era sempre una zia zitella che viveva in casa, che iniziava a ricamare e confezionare biancheria per la casa che veniva poi conservata con cura.
L'attrezzatura della ricamatrice siciliana era semplicissima: un telaio composto da quattro asticelle, tra le quali veniva tesa la tela da ricamare; un altro telaio rotondo per il ricamo dei fazzoletti; la balla o cuscino sul quale muoveva i fuselli ricavando, col semplice incrocio dei fili, i merletti e le applicazioni per le lenzuola e, il più piccolo degli arnesi, l'ago, che correva sui tessuti.
Si ricamavano cotone e lino, si tesseva invece la lana: dopo la tosatura delle pecore, veniva lavata in acqua di sorgente, poi infilata in un sacco di iuta a trama larga e immersa più volte nell'acqua bollente; veniva poi il risciacquo nei lavatoi, la sgocciolatura, l’asciugatura e poi l’“annittata” (ripulita).
Una volta pronta, veniva filata con rocca e fuso, stirata sull'aspo (matassaru), passata all'arcolaio (animmulu).
Sul tessuto, fiorivano i ricami, tombolo, al telaietto (u tularu), al telaio quadrato, con i fuselli, all'uncinetto.